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Steampunk:

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Un dolore acuto al petto mi colpisce come una frustata. Il rintocco del mio cuore ha perso un battito.
Percepisco l’odore della Morte sopraggiungere e ne ho piena consapevolezza. Ma in fondo non è così terribile, d’altronde è stata una mia scelta.
Seduta sulla poltrona del Dottor Morrison osservo il suo corpo steso a terra, ormai privo di vita. È stato il mio salvatore, il mio amante, il mio padrone e infine il mio carnefice. Ucciderlo era l’unico modo che avevo per spezzare il legame che aveva creato ridandomi la vita.

Dieci anni fa ero morta. Un fulmine mi aveva colpito fermando il mio cuore.
Lui lo aveva sostituito con un marchingegno di rame di altissima precisione. Come le lancette di un orologio aveva ripreso a battere, facendomi tornare fra i vivi.
Lo avevo amato per questo. Era un genio, un sognatore e io non ero certo una semplice ragazzina, ma ero da sempre stata considerata una mente eccelsa, capace di confrontarsi con i migliori scienziati del secolo.
Le mie ricerche erano all’avanguardia. La mia passione erano le macchine volanti. Ero diventata il braccio destro di mio padre, un ingegnere militare che aveva affiancato l’inventore Cugnot. Io lo avevo trascinato nelle mie follie, volendo cavalcare i cieli sbuffando vapore.

Stavo assistendo al primo lancio di un prototipo quando il fulmine era arrivato pochi istanti prima di avviare il motore.
Ricordo solo di essermi svegliata in un ospedale. Morrison era accanto a me. Due occhi celesti mi fissavano rapiti. Era euforico, il suo “esperimento” era riuscito ma non mi sentii così all’inizio. Mi riempiva di attenzioni, faceva tutto ciò che gli chiedevo. Diceva di amarmi.
Venni rapita del suo sguardo, delle sue mani forti. Non mi interessava la differenza di età, né l’opinione di mia madre, ancora convinta di aver procreato una fanciulla come le altre.

Accettai ogni test a cui venivo sottoposta e mi trasferii dal mio salvatore, nella sua grande villa in Abany Street, sebbene non fossimo ancora sposati.
Più i giorni passavano e più leggevo negli occhi della servitù pena e ribrezzo, però Morrison sedava ogni mia preoccupazione con baci e carezze, dandomi scherzosamente della pazza… e pazza ci divenni poco a poco, notando gli sguardi d’intesa fra l’uomo che amavo e alcune civettuole di passaggio. Erano “amiche di sua madre”, così diceva, ma a me sembravano solo zitelle in cerca di marito.
«La tua mente amore mio è la cosa più bella che io abbia mai visto… quelle donne sono solo stupidi involucri vuoti!» mi disse una sera, accarezzando il mio corpo nudo, steso accanto a lui sul grande letto a baldacchino. Staccò il cavo di alimentazione e persi i sensi, come ogni sera. Caricò la molla, sostituì alcuni meccanismi, e ricalibrò l’orologio in pochi secondi. Quando mi svegliai mi accarezzò il viso, poi mi sfiorò l’inguine con fare malizioso fino a risalire al petto dove l’orologio batteva con foga.

Gli credetti, ero persa di lui, ma l’idillio si spense quando il giorno successivo mi rifiutai di fare l’ennesimo esame. Notai un certo atteggiamento di diniego. Sollevò il sopracciglio e guardandomi fissa negli occhi mi disse: «Ma tu devi… è per la scienza».
«Ma l’ultima volta mi hai fatto male» gli avevo fatto notare.
«Solo io posso far funzionare il tuo cuore e solo grazie a te posso analizzarlo e riprodurlo in serie».
Mi aveva imprigionata in una ragnatela. Ero come una bambola nelle sue mani. Accettai il dolore come una missione. In fondo mi amava e mi aveva salvato la vita.

Quando entrai nella sua stanza alle prime luci dell’alba per fargli una sorpresa non voletti credere ai miei occhi. Non poteva certo essere suo quel corpo sudato e bianchiccio che si affannava scuotendo il grande letto a baldacchino. Deglutii e restai a osservare nell’ombra, ignorando i mugolii strozzati, cercando nella mente una soluzione. Ma più lo guardavo spingere dentro quella donna stesa supina, più la mie mente trovava una logica nel nostro rapporto… Mi stava usando. Io ero solo un oggetto, un misero esperimento.

Attesi il suo orgasmo in ligio silenzio. Fece un grido goffo, primitivo. Mi venne la nausea.
Si scostò dalla donna, il pene floscio, la pelle sudata.
Tutto il rispetto che avevo per lui finì sul pavimento.
Lasciai la stanza appena spalancò la bocca per parlare e corsi come una furia verso la sala delle armi.
Il cervello mi stava scoppiando. Non riuscivo a credere che mi avesse tradita. Con quante altre donne era stato? Mi aveva amata davvero? Mille immagini mi si palesavano davanti. I suoi sguardi, le sue parole, i suoi atteggiamenti galanti. Tutte bugie!

Spalancai la porta e mi avvicinai alla teca. Non avevo dubbi. Lo avrei ucciso con la balestra che gli avevo regalato.
Ne accarezzai il busto leggermente intarsiato, lì dove l’energia si accumulava per dare spinta al dardo.
Tornai come una furia nel luogo di fornicazione pensando solo a vendicarmi. Mi aveva trattata come un misero oggetto. Doveva sparire dalla faccia della terra.
La donna era fuggita e lui si stava rivestendo. Non sembrava nemmeno agitato.
Mi accomodai sulla poltrona, l’arma in braccio, mentre lui tentava di tirarsi su i pantaloni.
«Ti credevo più fantasiosa» mi disse sarcastico.
«Gli innamorati hanno, come i pazzi, un cervello tanto eccitabile e una fantasia tanto feconda, che vedono assai più cose di quante la fredda ragione riesca poi a spiegare(1)» gli risposi «ma mi hai portato via ogni illusione, lasciandomi priva di ogni creatività».
Attesi che chiudesse l’ultimo bottone e poi mirai.
Il dardo lo colpì al petto. Restò per pochi attimi in piedi, gli occhi e la bocca sbarrati. Nessun rivolo di sangue sgorgò dal suo corpo. Avevo distrutto con un colpo il macchinario che lo teneva in vita. Rovinò a terra come un sacco vuoto.
Non ero stata la prima…
Tic, tac, tic, tac… ancora qualche rintocco e poi il silenzio.

(1) William Shakespeare

Alexia Bianchini


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