Ki



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L’imperatore percorse i sei tatami che lo separavano dal generale chino di fronte a lui. Prese tra le mani la testa che l’ufficiale gli stava porgendo e lo guardò uscire dalla stanza, camminando all’indietro, senza mai alzarsi. Osservò la testa con calma, rigirandola tra le mani. Riconosceva l’elmo che la nascondeva: l’ampia falda dorata che proteggeva il collo, il fregio frontale in ottone cesellato, i lineamenti della maschera scura. Era l’elmo dell’uomo che tante volte aveva guidato le sue truppe.

L’imperatore tese i muscoli del viso per scongiurare una lacrima e fu allora che notò, inciso sul retro dell’elmo, il kanji che rappresentava il ki, lo spirito, l’indefinibile punto in comune tra vita, passione, costanza, forza; l’essenza che anima e dà senso alla vita di ogni uomo. Un simbolo adatto a Takamori Saigo.
Prima di morire l’imperatore ebbe appena il tempo di ricordare quando, da bambino, aveva tracciato quel simbolo per la prima volta. Rivide il suo maestro che spiegava con calma come le linee del kanji evocassero l’immagine di una pentola di riso al di sopra della quale si alzava, silenzioso e potente, il vapore
.
Ancora stretta tra le mani dell’imperatore, la testa esplose.

Shinpachi e Toshiaki aspettavano di poter vedere Takamori. Bevvero in silenzio il tè che era stato offerto loro. Toshiaki, seduto sui talloni, spostava il peso del corpo da una parte all’altra nel tentativo di alleviare il dolore al ginocchio sinistro, che lo tormentava.
«Pensi che accetterà? Sono anni che si è ritirato.»
«Nessun altro potrebbe guidare la ribellione.»
Dopo un lungo silenzio, Shinpachi proseguì: «E poi che vuoi fare? Dobbiamo provare.»
«Ma dicono che da quando si è chiuso qui sia… sai…»
«Impazzito! Rubo le statue di Buddha dai templi e riempio la notte di strani rumori. È così?» esplose una voce profonda dietro di loro. I due sobbalzarono. Takamori torreggiava alle loro spalle, il corpo massiccio, le spalle larghe, la testa quadrata e l’espressione cupa. Il guerriero scoppiò a ridere di gusto, di una risata calda come una spada dimenticata al sole.
Sapeva benissimo perché si trovavano lì.

«Quanti uomini abbiamo?»
«Pochi. Ma disposti a combattere fino allo stremo» rispose Shinpachi.
«Anche contro l’esercito imperiale?»
«L’imperatore ha decretato la fine dei samurai. Lo combatteranno. Non hanno altro nella vita.»
Toshiaki aggiunse: «L’impero ha moschetti e cannoni, e sospetta la rivolta: ci toglieranno le armi da fuoco prima che abbiamo il tempo di nasconderle. Avremo solo spade.»
«Seguitemi» disse Takamori, «forse chi mi crede impazzito non ha poi tutti i torti.»

Toshiaki guardava sorgere il sole da dietro la maschera dell’elmo. Shinpachi e Takamori stavano passando in rassegna il battaglione di uomini di ferro. Il sole arroventava le grandi piastre sovrapposte che formavano una grande ala nella parte posteriore degli elmi nascondendo le caldaie, faceva risplendere i listelli della corazza e i gambali che ospitavano tubi e valvole, accendeva i volti dagli occhi vuoti forgiati col metallo rubato ai templi.
Takamori controllava ingranaggi e giunture, regolava rubinetti e sfiati; sottili spire di vapore si levavano dai suoi samurai senz’anima.
«Perderemo questa battaglia» aveva detto Takamori a Toshiaki «ma non la guerra.»

I ribelli sembravano essere molti più del previsto. Il generale alla guida delle truppe imperiali diede comunque inizio alla manovra di accerchiamento della collina, da cui si levava un rumore sommesso e confuso, come di migliaia di grosse vespe frementi all’interno di un buco nel terreno, pronte a uscire da un momento all’altro. Il generale si girò a guardare il sole nascente sulla bandiera tesa nell’aria del mattino: questo simbolo scelto pochi anni prima, che i giapponesi stessi conoscevano a malapena, li avrebbe davvero protetti? Decise di dare l’ordine di attacco non appena il sole fosse stato alto nel cielo.

Toshiaki, inginocchiato a terra, ferito da un colpo di moschetto, si rassegnò a morire di lì a poco. Si tolse l’elmo, per vedere meglio. I soldati imperiali lo ignoravano ormai: sparavano contro i guerrieri dorati, i guerrieri lucenti di Takamori che menavano fendenti senza risparmiarsi, senza soffrire i colpi dei nemici, senza piegarsi, senza rallentare. Alla sua destra un soldato, evidentemente senza più munizioni, si avvicinò ad uno dei scintillanti samurai alzando la spada a lato della testa per caricare un attacco che, fulmineo e preciso, calò dall’alto e lateralmente sul guerriero meccanico nel punto di giunzione tra il risguardo e il coppo dell’elmo. La falda paranuca si staccò e la punta della spada, invece della tempia cedevole di un essere umano, sotto l’elmo incontrò ancora duro metallo, e restò imprigionata. Toshiaki vide lo stupore negli occhi del soldato che fissava il groviglio di ruote dentate, tubature, assi e cilindri in pressione lasciato allo scoperto dal colpo. In pochi attimi lo stupore si mutò in terrore e il soldato, lasciata la spada, si girò per allontanarsi ma non ne ebbe il tempo: uno dei ribelli era già alle sue spalle.

Il generale Yamagata percorreva il campo di battaglia a passi lenti, guardandosi intorno. Era inspiegabilmente grato e quasi sorpreso della vittoria, nonostante i numeri fossero indiscutibilmente dalla loro parte. Un sottoposto corse a chiamarlo e lui lo seguì lentamente fino alla sommità della collina. Il corpo di Takamori stretto nell’armatura giaceva sull’erba umida della sera, decapitato ma ancora con la spada in pugno. Il generale sospirò di sollievo.
«Trovate la testa.» disse al sottoposto, prima di ritirarsi per la notte.

Sara Tirabassi


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